di Jacopo
Sono
Marco Rossi, inviato dal Corriere della Sera sulla costa della Libia, per
capire cosa sia successo al barcone appena affondato, vi ricordo: 150 morti, 40
feriti e 3 sopravvissuti. Tra la confusione ho individuato il presunto
scafista, e sono riuscito ad intervistarlo.
Come
ti chiami?
"Mi
chiamo Samir Mohamed".
Hai una famiglia?
"Sì,
ho tre bambini piccoli: una femmina di 5 mesi e due gemelli di 7 anni. Vivono a
Tripoli. Faccio questo “lavoro” per portare a casa dei soldi, siamo molto
poveri".
Quanto hanno pagato per salire?
"Mi
vergogno a dirlo per la fine che hanno fatto, ma per ognuno abbiamo preso 3
mila euro, quindi, se si imbarcano 150 persone, la traversata vale 450 mila
euro".
Abbiamo preso…? Che significa, in quanti siete?
"Certo…
voi dell’Onu pensate che quei soldi vadano a noi e alle nostre famiglie, invece
noi prendiamo solo l’un per cento di quel denaro. Veniamo sfruttati da persone potenti di cui non posso fare il nome".
Di che paese sei?
"Sono
di origine somala, mi sono trasferito qualche anno fa a Tripoli con la mia
famiglia".
Quanti viaggi hai fatto?
"Ne
ho fatti due, uno è finito bene, abbiamo portati tutti nelle acque italiane
dove sono stati soccorsi; questo invece è andato molto male".
Non ti senti in colpa per tutti questi morti?
Nell’accordo
non si garantiva l’arrivo in Italia, era solo una possibilità. Queste persone
sono disperate, scappano dalla guerra e da una morte certa: per loro la
speranza di arrivare in Italia supera ogni paura.
Cambieresti qualcosa nella tua vita?
"Non
cambierei niente, ho dei figli fantastici e una moglie che amo. Vorrei non
essere costretto a fare questo “lavoro”".
Cosa vuoi dire al mondo?
"La
vita non è sempre bella, e alle famiglie di questi morti voglio dire solo una
cosa: Abbiate fede, li rivedrete un giorno, e ora sicuramente stanno meglio!”
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