Il film è un viaggio. Non solo a Kandahar, Afghanistan, ma soprattutto un viaggio in una natura aspra e affascinante dove la violazione dell'essere è fatto quotidiano.
Se bastasse sintetizzare con un'immagine di Viaggio A Kandahar indicherei questa: uomini, solo uomini, che corrono saltellando su di una gamba verso delle protesi lanciate ognuna con un paracadute. Sequenza ripetuta ben due volte. La prima, dall'elicottero della Croce Rossa con cui Nafas raggiunge il confine con l'Iran. La seconda dall'interno, quando Nafas è ormai in territorio afgano, non più estranea alla realtà del Paese. Due diversi punti d'osservazione, che delimitano un mutamento di percezione della scena: distante, senza avere abbastanza elementi per decodificarne il profondo significato; ravvicinata, dopo essere stata/i testimoni dei processi che l'hanno determinata.
Chi è Nafas? E' una donna afgana fuggita da bambina in Canada dove lavora come giornalista. Torna perché ha ricevuto dalla sorella una lettera, prima passata tra le mani di molti profughi, in cui la informa di volersi suicidare durante l'ultima eclissi del secolo, evidentemente secondo il calendario occidentale. Nafas decide di intraprendere il viaggio, mettendo a repentaglio la propria vita, per donare alla sorella la speranza, incidendo su un registratore la narrazione del viaggio, le proprie riflessioni, le voci delle persone che incontra.
Trailer
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